Il potere allo specchio

Il potere allo specchio

1993
olio su tela cm. 35x50

Il Potere non si guarda mai in faccia poiché se lo facesse rabbrividirebbe e quindi la sua immagine riflessa nello specchio è sempre l'immagine delle sue spalle.
Il pesce sulla sedia sta a significare che le poltrone del potere puzzano, il resto ha un significato soltanto di coreografia.
 
Sfuggire

Sfuggire

1994
olio su tela cm. 35x50

Il rappresentante del potere entra dalla porta e si trova davanti la scena di chi dorme (o meglio chi si assopisce nella sua funzione) o di chi vuole sfuggire di fronte alla realtà.
E' la costante scena della vita: chi non ha potere, rappresentato con le maglie a strisce, ignora o sfugge le proprie responsabilità di fronte al potere che incute timore e paura.
 
Potere spezzato

potere spezzato

1995
olio su tela cm 70x100

Il potere è stato perso, si è incrinato e quindi non funziona più come specchio che ad un certo punto si incrina e si spezza in un attimo.
Sembra tutto finito ma i simboli del potere: il manuale del potere, il telefono e le persone fantoccio (nel cassetto) e le ballerine rimangono ben salde al servizio del nuovo potere che arriverà.
 
Labirinto

Labirinto

2002
olio su tela cm. 100x70

Sorride, sorride sempre il tempio del potere, cui Dal Canto dà l'aspetto d'un labirinto, come in altri suoi quadri. A cavalcioni del tempio, al quale è estraneo, un curioso guarda dall'alto l'anonimo uomo che si accinge ad attraversarne la porta, profilata come il Duomo di Milano. È l'ennesimo aspirante al Potere, del quale già porta i segni distintivi: l'abito scuro e la bombetta. Ma mostra il sedere scoperto, e la ragione è molto semplice: per entrare nel giro del Potere, bisogna mettere a disposizione cose personali importanti.
 
Il labirinto del potere

Il labirinto del
potere

2006
olio su tela cm. 60x50

Per Dal Canto il nostro è il tempo dei labirinti, e molti suoi dipinti svolgono questo tema. Si ricorda il labirinto traslucido. Qui siamo in presenza di un labirinto netto, solido, insormontabile in quanto ben protetto dal Potere. Fuori del labirinto del Potere ci sono il selciato e gli alberi secchi per l'ambiente ostile. All'interno gli alberi sono verdi ed il suolo è ben levigato per l'ambiente favorevole. Le persone comuni tentano di entrare senza successo. All'ingresso è piazzato un cartello stradale che interdice l'accesso, ovviamente alla gente comune. Il Potere, sempre con bombetta e giacca, è identifi cato come italiano. Lo attesta la bandierina. Come si vede gli mancano i pantaloni, e si dà il caso che un uomo senza i pantaloni non vale niente. L'artista nel suo pensiero inespresso va oltre: paragona un uomo senza pantaloni a una merda.
 
Bugie

Bugie

2007
olio su tela cm. 60x50

Il Potere è poliedrico e si manifesta in varie forme. Qui assume un colore rosso (forse la vergogna) al posto del nero usualmente utilizzato dall'artista, ed ha una doppia faccia, una delle quali è quella di Pinocchio col naso allungato. Qui il tema è proprio la bugia di cui il Potere si serve spesso rinserrato nel suo labirinto. La bugia cresce in un albero speciale ed è utilizzata dagli gnomi che escono dalle tasche del Potere e tengono in mano le lettere di cui si compone la parola B U G I E.
 
Labirinto con acari

Labirinto con acari

2009
olio su tela cm. 50x60

Il Potere è convinto di poter comandare (tenere al guinzaglio) anche il sole dall'alto dei palazzi che hanno deturpato i simboli dell'Italia (Colosseo).
Gli acari circolano liberamente, ormai padroni dell'ambiente.
 
Elevazione

Elevazione

2010
olio su tela cm. 70x100

Sul fondo del labirinto del mondo, dove tutti lottano, solo alcuni riescono ad elevarsi.
I burattini cercano di aiutare la gente che si sforza di emergere.
Da notare che sul fondo ci sono le cose cattive (alberi mozzati e privi di foglie, orologi deformi, ecc.) mente in alto i simboli si normalizzano (orologio rotondo).
 
Hamburger e Coca Cola

Hamburger e Coca Cola

2012
Olio su tela cm. 60 x 50

In un labirinto, dal quale la gente comune non può uscire, si è costretti ad accontentarsi soltanto di quello che viene proposto.
Pinocchio non manovra il Potere ma ne mostra soltanto i simboli.
 
 
 
OPERE » LABIRINTI E SPECCHI

GIORGIO DAL CANTO:
UN PERCORSO ARTISTICO SEGNATO DA IRONIA E AMAREZZA, DISINCANTO E PREOCCUPAZIONE

Ilario Luperini

Da oltre quaranta anni Giorgio Dal Canto conduce un lavoro creativo di notevole levatura, meritevole di un'attenzione critica assai più rilevante di quanto il suo appartato lavoro abbia finora suscitato.
Il nucleo poetico del suo linguaggio risiede nella costruzione di un conflitto: da una parte supponenti e tronfi e figure in nero con la classica bombetta, simbolo scontato di una borghesia opulenta, personificazioni di un potere che condiziona l'esistenza; dall'altra teneri e patetici uomini con maglie a strisce orizzontali, i "righe", in apparenza assoggettati ai simboli del potere (clero, militari, terzo stato, politici corrotti) in realtà protesi – talora anche drammaticamente – verso il raggiungimento di una propria dimensione di libertà, priva di rapporti con un mondo costruito di miti ed illusioni disumanizzanti. Ma il conflitto è astorico nella sua assolutezza, quasi teatrino magico, ironico, incantato, spesso inquietante, popolato di figure e simboli di grande pregnanza comunicativa. Questo conflitto, motivo conduttore di tutto il suo lungo e affascinante lavoro, assume, di ciclo in ciclo, caratteri diversi, quasi variazioni sul tema. In altra parte del libro mi soffermo sulle opere ultime. Qui alcune considerazioni sui caratteri e i temi che fanno di questo autore un esempio di coerenza linguistica, rigore intellettuale e ricchezza creativa.
Le sue costruzioni sono ottenute con sapienza coloristica e raffi nata minuziosità calligrafica, a volte sostenuta da solidità di impianto plastico, aspetti tutti che gli derivano dalle sue origini di esperto decoratore. La delicata raffinatezza analitica, la sapiente insistenza sui dettagli, non scadono mai in descrittivismo, ma si sublimano in sintesi formali di rara intensità espressiva e rimandano alle fonti della sua ispirazione: non solo, come è facile rilevare, i contemporanei (vicini e lontani: da Viviani a De Chirico a Dalì), ma anche i classici della cultura figurativa italiana, da Giotto a Piero della Francesca, senza escludere riferimenti alla minuziosità descrittiva fiamminga. I temi affrontati sono tutti di immediata attualità; sono trattati con passione, in un turbinio di suggestioni da cui il primo ad essere coinvolto è lui stesso. Ma al di sopra c'è l'ironia: leggera e soffusa, malinconica e pungente, pietosa e dissacrante fi no a giungere al sarcasmo; un'ironia talvolta amara e sfiduciata, ma mai disposta a piegarsi senza tentare la sua affermazione: non è certo solo con essa che si salva il mondo, ma è indubbio che senza di essa il mondo è destinato alla dannazione.
Proprio nell'affrontare temi di così immediata attualità, Dal Canto rivela l'urgenza profonda di astrarsi dal contingente a favore di un mondo pittorico immobile, al disopra del tempo e dello spazio, affollato di simboli, oggetti, figure, animali immersi in un'aura fantastica e fantasticamente costruiti. Ecco i personaggi dallo sguardo fisso e gli occhi incavati, i nasi adunchi e le narici dilatate, le meccaniche pose dei corpi, le atmosfere sospese, i colori nitidi, quasi senza sfumature, i contorni netti, le stesure uniformi, le composizioni in equilibrio instabile. Man mano che il suo percorso artistico procede, il terreno d'indagine si sposta su un versante sempre più socio-culturale; affronta alcuni grossi nodi della dinamica sociale e si sofferma su temi che gli sono sempre stati cari – la solitudine, l'isolamento, i condizionamenti del potere, la soggezione agli stereotipi del senso comune – ma che assumono un carattere di sempre maggiore universalità. Le figurazioni appaiono sostenute da una più esplicita accentuazione dei toni che vanno dalla fantasmagoria onirica fino ad alcuni sconfinamenti in un simbolismo surreale. L'apparato decorativo è sempre più ricco, sia dal punto di vista compositivo che cromatico e sembra precludere ad una esplosione della gioia di vivere; in realtà fa da contrappunto a una visione sempre più amara della realtà e dei luoghi dell'esistenza. Quanto più i colori diventano squillanti e la costruzione ambientale più ricca di particolari, tanto più, per contrappasso, il dramma dell'esistenza si evidenzia con sempre maggiore intensità. In genere la stesura cromatica si fa più uniforme, traversata da vibrante intensità linearistica, senza che ciò significhi appiattimento e perdita di consistenza plastica.
La visione delle opere è multipla e complessa: l'occhio viene prima attratto dalle figure emergenti per proporzioni e soluzioni compositive; poi, pian piano, si diffonde sui particolari, non perdendo mai di vista, però, il senso complessivo dell'insieme, anche quando la simbologia di determinati dettagli (animali strani, frutti rappresentati in funzione solo apparentemente decorativa, scorci di paesaggi urbani, lontananze solitarie e silenziose) appare incomprensibile. Ciò è dovuto alla capacità dell'artista di ricondurre a unità, attraverso le gradazioni cromatiche e le evoluzioni della linea, ogni particolare che, pure, in sé è curato con estrema attenzione e precisione miniaturistica. Ne deriva quel senso di assolutezza che è dato costante delle opere di Giorgio Dal Canto; un senso di assolutezza in cui la scoperta ironia iniziale sembra attenuarsi per far posto, almeno in alcuni momenti, all'amarezza e allo scoramento, mai, però, piegati verso il dramma, ma sorretti da pervicace pazienza e indistruttibile desiderio di combattere. "Righe” e "Bombetta” sembrano sempre più uniti da un comune, triste destino: l'inesorabile caduta verso l'individualismo, in una società che omologa tutto e tutti, che non lascia spazio alla valorizzazione dell'individuo in un sistema di rapporti sociali sviluppati. Specialmente nei cicli creati nella seconda metà degli anni Novanta del Novecento, per rendersene conto basta osservare le facce dei personaggi, tutte ugualmente immalinconite o colte in espressioni di apparente e tragica allegria, o le posizioni dei corpi, singoli o affastellati in improbabili grovigli, denotanti assuefazione, assoggettamento, calo di tensione, quasi una sorta di consapevolezza che gli occulti manovratori (le gerarchie ecclesiastiche, i pochi potenti della terra) condizionano l'umanità nella stessa maniera, senza distinzione di ceto sociale.
Nemmeno la cultura tradizionale salva più. Le città perdono i loro connotati originari: i loro monumenti si affastellano e, benché ancora chiaramente riconoscibili, sono estrapolati dal loro contesto ad indicare il comune rischio di perdita d'identità cui l'umanità è condannata dalla civiltà multimediale. In questo ambito, ricorre spesso l'immagine della Torre di Pisa, isolata o rappresentata insieme ad altri edifici monumentali. Da ricordare, peraltro, un ciclo ad essa interamente dedicato, nel 1993. È trattata quasi sempre con caustica ironia, con la volontà di scarnificare un mito, di depurarlo da tutte le scorie mercantilistiche per riproporne, per intero, la bellezza, per sottrarla all'azione corrosiva del ben pensare comune che rischia di omologarla alla "filosofia dell'usa e getta”. A partire dal 1995, con il ciclo "Disgrazie di un paese”, la vena di Giorgio sembra essere attraversata da maggiori ansie; aumenta il senso dell'impotenza, cresce la preoccupazione, in particolare per la consapevolezza che in Italia si sta strutturando un impero mediatico che condiziona i ritmi stessi dell'esistenza.
Funzionali al potere sono, infatti, i facili miraggi dei mezzi di comunicazione di massa di cui i potenti si servono per indurre preconcetti, luoghi comuni, stereotipi. Il potere costringe l'uomo a vivere nella cronaca, perdendo il senso della storia. E la cronaca con cui i media ci inondano quotidianamente è nera o rosa; l'una induce paura, l'altra stupidità. E contro questa azione condizionante delle televisioni Giorgio Dal Canto appunta di frequente la sua attenzione. Dal Canto è consapevole che con la civiltà della televisione siamo entrati in una situazione antropologica del tutto inaspettata; non siamo più davanti all'immagine, siamo nell'immagine: in questa condizione non c'è più alcun atto di volontà che presiede all'osservazione: anche senza andare al museo o al cinema siamo continuamente circondati dalle immagini. La trasmissione in tempo reale permette inoltre di partecipare alla stessa temporalità di un avvenimento reale e distante: non assistiamo più a una rappresentazione, ma abbiamo l'impressione di partecipare direttamente alla sua esistenza. Cambia, quindi, proprio il meccanismo antropologico: non è più la persona che va verso il mondo, ma è il mondo che va verso la persona, dato che davanti alla televisione confondiamo necessariamente la realtà con la sua immagine.
La televisione è forse la più straordinaria macchina che la tecnologia abbia inventato. È una scatola magica, uno strumento da favola, una scatola in cui si vedono le cose del mondo, mentre le cose succedono. Oltretutto grazie alle immagini numeriche, per la prima volta si possono creare figure di sintesi, delle immagini di nulla che sono semplicemente delle modalità di calcolo.
L'immagine diventa, quindi, autoreferenziale in quanto non è il doppio di qualche cosa, ma è la realtà di se stessa. Il falso effetto di realtà della TV produce un mondo sempre meno reale. Il pericolo è quello di perdere ogni rapporto critico con la realtà e di vivere in una dimensione di infingimenti eterodiretti. È possibile reagire a questo rischio? Giorgio Dal Canto, dietro un aspetto sornione e maliziosamente disincantato, si è sempre posto questi inquietanti interrogativi e, prima di tutto, ha cercato soluzioni dentro di sé, senza preoccuparsi di caricare il suo mondo poetico di compiti, di missioni, di doveri, di funzioni maieutiche che sente lontane dal suo modo di pensare e di operare.
In alcuni lavori più recenti, Dal Canto pare immaginare gli scenari di una società governata dalla telematica: la persona potrà entrare in comunicazione con tutti gli enti dell'universo, soddisfare i desideri della vita e le esigenze del lavoro senza abbandonare l'abitazione familiare. Le nostre attuali metropoli, strutturate sulla rigida differenza tra spazio pubblico e privato si trasformeranno in città i cui abitanti potranno vivere e lavorare restandosene comodamente seduti a casa propria, ma collegati al resto del mondo per via di un'immensa rete multimediale. In teoria si annullerà la distanza tra vita solitaria e vita comunitaria: ognuno, pur rimanendo solo, potrà incontrare tutti gli altri interagendo operativamente – quindi in maniera attiva – con loro attraverso uno schermo. Indubbi i vantaggi: non più tempi morti di spostamento, non più traffico e inquinamento; un risparmio enorme di costi sociali.
Ma quali costi sul piano umano? Sul piano della qualità della vita? Quale fi ne farà il senso di comunanza, di convivenza, di socialità? Quale forma di coscienza civile si formerà? Dal Canto formula queste domande e presenta più dubbi che risposte. Di una cosa, però, sembra essere certo: si perderà l'incontro diretto con le cose, con gli animali, con i propri simili, con il loro volto, con il loro sguardo, con il loro odore. Il volto, l'intensità di uno sguardo non può essere sostituito da un'interfaccia virtuale. Ognuno rischia di perdere anche la propria soggettività, perché la soggettività si forma proprio nel dialogo diretto con gli altri, con il fuori, con il calore del rapporto reale. Si può incorrere in un pericoloso processo di totale estraneamento.
Tutta la storia delle immagini, la produzione di immagini, è sempre stata accompagnata da una consapevolezza: la rappresentazione di una cosa non può mai sostituirsi alla cosa stessa.
Con le nuove tecnologie multimediali si tende invece a fare proprio l'opposto: non si tratta più di rappresentare il mondo, ma di sostituire alla realtà un mondo virtuale, all'interno del quale muoversi, operare come se fosse quello reale e, quindi, facendo a meno di quest'ultimo. Ma se ciò comporta, come è immaginabile, la perdita della imprevedibilità degli accadimenti, la perdita del senso ultimo della vita, allora quel tipo di comunicazione rischia di essere povero e, quindi, di immiserire la dimensione umana.
Attenzione, sembra avvertire Dal Canto, la posta in gioco è veramente alta, la questione non va assolutamente sottovalutata, pena una perenne condanna all'isolamento, alla più profonda solitudine. Per questo la sua è una visione sempre meno disincantata; l'artista incomincia a preoccuparsi davvero di quel che può succedere all'umanità; e ne esce pensoso, ancora pronto alla battuta ironica, al sorriso beff ardo, alla sottolineatura caricaturale, ma decisamente preoccupato. E il suo mondo diviene sempre di più paradigma dell'assoluto, ormai del tutto lontano dal contingente.
L'uomo, l'artista Dal Canto è ancora ricco di combattività, ma è anche consapevole di trovarsi di fronte a percorsi ognora più ardui.
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