OPERE
» LABIRINTI E SPECCHI
GIORGIO DAL CANTO:
UN PERCORSO ARTISTICO SEGNATO DA IRONIA E AMAREZZA,
DISINCANTO E PREOCCUPAZIONE
Ilario Luperini
Da oltre quaranta anni Giorgio Dal Canto conduce un lavoro creativo di
notevole levatura, meritevole di un'attenzione critica assai più rilevante
di quanto il suo appartato lavoro abbia finora suscitato.
Il nucleo poetico del suo linguaggio risiede nella costruzione di un
conflitto: da una parte supponenti e tronfi e figure in nero con la classica
bombetta, simbolo scontato di una borghesia opulenta, personificazioni di un
potere che condiziona l'esistenza; dall'altra teneri e patetici uomini con
maglie a strisce orizzontali, i "righe", in apparenza assoggettati ai
simboli del potere (clero, militari, terzo stato, politici corrotti) in
realtà protesi – talora anche drammaticamente – verso il raggiungimento di
una propria dimensione di libertà, priva di rapporti con un mondo costruito
di miti ed illusioni disumanizzanti. Ma il conflitto è astorico nella sua
assolutezza, quasi teatrino magico, ironico, incantato, spesso inquietante,
popolato di figure e simboli di grande pregnanza comunicativa. Questo
conflitto, motivo conduttore di tutto il suo lungo e affascinante lavoro,
assume, di ciclo in ciclo, caratteri diversi, quasi variazioni sul tema. In
altra parte del libro mi soffermo sulle opere ultime. Qui alcune
considerazioni sui caratteri e i temi che fanno di questo autore un esempio
di coerenza linguistica, rigore intellettuale e ricchezza creativa.
Le sue costruzioni sono ottenute con sapienza coloristica e raffi nata
minuziosità calligrafica, a volte sostenuta da solidità di impianto
plastico, aspetti tutti che gli derivano dalle sue origini di esperto
decoratore. La delicata raffinatezza analitica, la sapiente insistenza sui
dettagli, non scadono mai in descrittivismo, ma si sublimano in sintesi
formali di rara intensità espressiva e rimandano alle fonti della sua
ispirazione: non solo, come è facile rilevare, i contemporanei (vicini e
lontani: da Viviani a De Chirico a Dalì), ma anche i classici della cultura
figurativa italiana, da Giotto a Piero della Francesca, senza escludere
riferimenti alla minuziosità descrittiva fiamminga. I temi affrontati sono
tutti di immediata attualità; sono trattati con passione, in un turbinio di
suggestioni da cui il primo ad essere coinvolto è lui stesso. Ma al di sopra
c'è l'ironia: leggera e soffusa, malinconica e pungente, pietosa e
dissacrante fi no a giungere al sarcasmo; un'ironia talvolta amara e
sfiduciata, ma mai disposta a piegarsi senza tentare la sua affermazione:
non è certo solo con essa che si salva il mondo, ma è indubbio che senza di
essa il mondo è destinato alla dannazione.
Proprio nell'affrontare temi di così immediata attualità, Dal Canto rivela
l'urgenza profonda di astrarsi dal contingente a favore di un mondo
pittorico immobile, al disopra del tempo e dello spazio, affollato di
simboli, oggetti, figure, animali immersi in un'aura fantastica e
fantasticamente costruiti. Ecco i personaggi dallo sguardo fisso e gli occhi
incavati, i nasi adunchi e le narici dilatate, le meccaniche pose dei corpi,
le atmosfere sospese, i colori nitidi, quasi senza sfumature, i contorni
netti, le stesure uniformi, le composizioni in equilibrio instabile. Man
mano che il suo percorso artistico procede, il terreno d'indagine si sposta
su un versante sempre più socio-culturale; affronta alcuni grossi nodi della
dinamica sociale e si sofferma su temi che gli sono sempre stati cari – la
solitudine, l'isolamento, i condizionamenti del potere, la soggezione agli
stereotipi del senso comune – ma che assumono un carattere di sempre
maggiore universalità. Le figurazioni appaiono sostenute da una più
esplicita accentuazione dei toni che vanno dalla fantasmagoria onirica fino
ad alcuni sconfinamenti in un simbolismo surreale. L'apparato decorativo è
sempre più ricco, sia dal punto di vista compositivo che cromatico e sembra
precludere ad una esplosione della gioia di vivere; in realtà fa da
contrappunto a una visione sempre più amara della realtà e dei luoghi
dell'esistenza. Quanto più i colori diventano squillanti e la costruzione
ambientale più ricca di particolari, tanto più, per contrappasso, il dramma
dell'esistenza si evidenzia con sempre maggiore intensità. In genere la
stesura cromatica si fa più uniforme, traversata da vibrante intensità
linearistica, senza che ciò significhi appiattimento e perdita di
consistenza plastica.
La visione delle opere è multipla e complessa: l'occhio viene prima attratto
dalle figure emergenti per proporzioni e soluzioni compositive; poi, pian
piano, si diffonde sui particolari, non perdendo mai di vista, però, il
senso complessivo dell'insieme, anche quando la simbologia di determinati
dettagli (animali strani, frutti rappresentati in funzione solo
apparentemente decorativa, scorci di paesaggi urbani, lontananze solitarie e
silenziose) appare incomprensibile. Ciò è dovuto alla capacità dell'artista
di ricondurre a unità, attraverso le gradazioni cromatiche e le evoluzioni
della linea, ogni particolare che, pure, in sé è curato con estrema
attenzione e precisione miniaturistica. Ne deriva quel senso di assolutezza
che è dato costante delle opere di Giorgio Dal Canto; un senso di
assolutezza in cui la scoperta ironia iniziale sembra attenuarsi per far
posto, almeno in alcuni momenti, all'amarezza e allo scoramento, mai, però,
piegati verso il dramma, ma sorretti da pervicace pazienza e indistruttibile
desiderio di combattere. "Righe” e "Bombetta” sembrano sempre più uniti da
un comune, triste destino: l'inesorabile caduta verso l'individualismo, in
una società che omologa tutto e tutti, che non lascia spazio alla
valorizzazione dell'individuo in un sistema di rapporti sociali sviluppati.
Specialmente nei cicli creati nella seconda metà degli anni Novanta del
Novecento, per rendersene conto basta osservare le facce dei personaggi,
tutte ugualmente immalinconite o colte in espressioni di apparente e tragica
allegria, o le posizioni dei corpi, singoli o affastellati in improbabili
grovigli, denotanti assuefazione, assoggettamento, calo di tensione, quasi
una sorta di consapevolezza che gli occulti manovratori (le gerarchie
ecclesiastiche, i pochi potenti della terra) condizionano l'umanità nella
stessa maniera, senza distinzione di ceto sociale.
Nemmeno la cultura tradizionale salva più. Le città perdono i loro connotati
originari: i loro monumenti si affastellano e, benché ancora chiaramente
riconoscibili, sono estrapolati dal loro contesto ad indicare il comune
rischio di perdita d'identità cui l'umanità è condannata dalla civiltà
multimediale. In questo ambito, ricorre spesso l'immagine della Torre di
Pisa, isolata o rappresentata insieme ad altri edifici monumentali. Da
ricordare, peraltro, un ciclo ad essa interamente dedicato, nel 1993. È
trattata quasi sempre con caustica ironia, con la volontà di scarnificare un
mito, di depurarlo da tutte le scorie mercantilistiche per riproporne, per
intero, la bellezza, per sottrarla all'azione corrosiva del ben pensare
comune che rischia di omologarla alla "filosofia dell'usa e getta”. A
partire dal 1995, con il ciclo "Disgrazie di un paese”, la vena di Giorgio
sembra essere attraversata da maggiori ansie; aumenta il senso
dell'impotenza, cresce la preoccupazione, in particolare per la
consapevolezza che in Italia si sta strutturando un impero mediatico che
condiziona i ritmi stessi dell'esistenza.
Funzionali al potere sono, infatti, i facili miraggi dei mezzi di
comunicazione di massa di cui i potenti si servono per indurre preconcetti,
luoghi comuni, stereotipi. Il potere costringe l'uomo a vivere nella
cronaca, perdendo il senso della storia. E la cronaca con cui i media ci
inondano quotidianamente è nera o rosa; l'una induce paura, l'altra
stupidità. E contro questa azione condizionante delle televisioni Giorgio
Dal Canto appunta di frequente la sua attenzione. Dal Canto è consapevole
che con la civiltà della televisione siamo entrati in una situazione
antropologica del tutto inaspettata; non siamo più davanti all'immagine,
siamo nell'immagine: in questa condizione non c'è più alcun atto di volontà
che presiede all'osservazione: anche senza andare al museo o al cinema siamo
continuamente circondati dalle immagini. La trasmissione in tempo reale
permette inoltre di partecipare alla stessa temporalità di un avvenimento
reale e distante: non assistiamo più a una rappresentazione, ma abbiamo
l'impressione di partecipare direttamente alla sua esistenza. Cambia,
quindi, proprio il meccanismo antropologico: non è più la persona che va
verso il mondo, ma è il mondo che va verso la persona, dato che davanti alla
televisione confondiamo necessariamente la realtà con la sua immagine.
La televisione è forse la più straordinaria macchina che la tecnologia abbia
inventato. È una scatola magica, uno strumento da favola, una scatola in cui
si vedono le cose del mondo, mentre le cose succedono. Oltretutto grazie
alle immagini numeriche, per la prima volta si possono creare figure di
sintesi, delle immagini di nulla che sono semplicemente delle modalità di
calcolo.
L'immagine diventa, quindi, autoreferenziale in quanto non è il doppio di
qualche cosa, ma è la realtà di se stessa. Il falso effetto di realtà della
TV produce un mondo sempre meno reale. Il pericolo è quello di perdere ogni
rapporto critico con la realtà e di vivere in una dimensione di infingimenti
eterodiretti. È possibile reagire a questo rischio? Giorgio Dal Canto,
dietro un aspetto sornione e maliziosamente disincantato, si è sempre posto
questi inquietanti interrogativi e, prima di tutto, ha cercato soluzioni
dentro di sé, senza preoccuparsi di caricare il suo mondo poetico di
compiti, di missioni, di doveri, di funzioni maieutiche che sente lontane
dal suo modo di pensare e di operare.
In alcuni lavori più recenti, Dal Canto pare immaginare gli scenari di una
società governata dalla telematica: la persona potrà entrare in
comunicazione con tutti gli enti dell'universo, soddisfare i desideri della
vita e le esigenze del lavoro senza abbandonare l'abitazione familiare. Le
nostre attuali metropoli, strutturate sulla rigida differenza tra spazio
pubblico e privato si trasformeranno in città i cui abitanti potranno vivere
e lavorare restandosene comodamente seduti a casa propria, ma collegati al
resto del mondo per via di un'immensa rete multimediale. In teoria si
annullerà la distanza tra vita solitaria e vita comunitaria: ognuno, pur
rimanendo solo, potrà incontrare tutti gli altri interagendo operativamente
– quindi in maniera attiva – con loro attraverso uno schermo. Indubbi i
vantaggi: non più tempi morti di spostamento, non più traffico e
inquinamento; un risparmio enorme di costi sociali.
Ma quali costi sul piano umano? Sul piano della qualità della vita? Quale fi
ne farà il senso di comunanza, di convivenza, di socialità? Quale forma di
coscienza civile si formerà? Dal Canto formula queste domande e presenta più
dubbi che risposte. Di una cosa, però, sembra essere certo: si perderà
l'incontro diretto con le cose, con gli animali, con i propri simili, con il
loro volto, con il loro sguardo, con il loro odore. Il volto, l'intensità di
uno sguardo non può essere sostituito da un'interfaccia virtuale. Ognuno
rischia di perdere anche la propria soggettività, perché la soggettività si
forma proprio nel dialogo diretto con gli altri, con il fuori, con il calore
del rapporto reale. Si può incorrere in un pericoloso processo di totale
estraneamento.
Tutta la storia delle immagini, la produzione di immagini, è sempre stata
accompagnata da una consapevolezza: la rappresentazione di una cosa non può
mai sostituirsi alla cosa stessa.
Con le nuove tecnologie multimediali si tende invece a fare proprio
l'opposto: non si tratta più di rappresentare il mondo, ma di sostituire
alla realtà un mondo virtuale, all'interno del quale muoversi, operare come
se fosse quello reale e, quindi, facendo a meno di quest'ultimo. Ma se ciò
comporta, come è immaginabile, la perdita della imprevedibilità degli
accadimenti, la perdita del senso ultimo della vita, allora quel tipo di
comunicazione rischia di essere povero e, quindi, di immiserire la
dimensione umana.
Attenzione, sembra avvertire Dal Canto, la posta in gioco è veramente alta,
la questione non va assolutamente sottovalutata, pena una perenne condanna
all'isolamento, alla più profonda solitudine. Per questo la sua è una
visione sempre meno disincantata; l'artista incomincia a preoccuparsi
davvero di quel che può succedere all'umanità; e ne esce pensoso, ancora
pronto alla battuta ironica, al sorriso beff ardo, alla sottolineatura
caricaturale, ma decisamente preoccupato. E il suo mondo diviene sempre di
più paradigma dell'assoluto, ormai del tutto lontano dal contingente.
L'uomo, l'artista Dal Canto è ancora ricco di combattività, ma è anche
consapevole di trovarsi di fronte a percorsi ognora più ardui.