OPERE
» UNA STORIA CONTRO
UN ATTACCO POETICO AL POTERE
Dino Carlesi
Una mostra di Giorgio Dal Canto si presenta sempre come una grande lezione:
di socialità, di etica, di simpatia. Le sue tele diventano messaggi, anzi
comunicazioni di significati in cui l'uomo è quasi sempre soccombente,
obbediente ad un Potere che in ogni situazione tende a porlo in condizioni
di perdente. I fatti si intrecciano, gli eventi conducono il Potere a
prevalere sempre a favore di quel mondo che perfino il burattino Pinocchio
cerca di smascherare in ogni pagina del libro: il Potere non lo hanno gli
"ammassati", alcuni politici, quelli col "culo scoperto", quelli che non
abitano al centro, quelli che frequentano il labirinto; il potere ce l'ha il
pifferaio magico, il potere che "puzza" in ogni luogo e nello stesso modo.
Non ha potere chi dorme, chi diviene animale, il poveraccio che annega nel
piccolo bicchiere, colui che rimane appeso al proprio quadretto, coloro che
attendono sempre, che si chiudono nei bricchi, coloro che si accontentano di
un pesce, coloro che non arrivano al limite alto della cultura, coloro che
vanno in palestra per sfogare le proprie rabbie; le donne, per esempio, che
vanno a passeggio con la borsetta domenicale.
Ma Dal Canto va ad approfondire epoche e stagioni di un mondo ancora più
antico, quando sul rame figure tolte dalla storia e dalla mitologia si
collegavano anche allora alle situazioni umane. Cavalieri e paggi, mercanti,
la morte possibile, l'angelo atteso, diventavano decorazioni e simboli,
documenti di un'epoca e di una cultura vissuta nelle bettole e anche nei
palazzi. Dal Canto continua la tradizione di queste storie rapportate al
costume di oggi. Si rinnovano il "Re di denari" o la "Donna di cuori". Il
"Fante di fiori" e il "Jolly" partono sull' "Occidente Express" per la loro
avventura collocandosi nel gioco della vita e della morte, sempre vincenti o
perdenti, aperti al rischio, alla tensione dell'amore e del costume.
Sono cambiati i tempi ma Dal Canto riesce a mantenere intatta la notizia -
nell' epoca della comunicazione - rifacendosi ogni volta al suo ambiente di
origine e cogliendo di ogni evento il significato più polemico. Ecco perché
Dal Canto meriterebbe ben altra attenzione critica: egli, infatti, da vari
decenni conduce serenamente una sua vita di artista realizzando opere di
altissimo interesse sia sotto l'aspetto tecnico-pittorico sia sotto
l'aspetto satirico-sociale. Dal Canto vive il suo tempo, un tempo che ama
l'avventura, il rischio, l'abilità della scommessa. Dal Canto ha scelto solo
i "giochi" su cui un giocatore si impegna per realizzare una "posta", un
risultato concreto, distinguendo tra i giochi che dipendono esclusivamente
dal "caso" (tombola o dadi) o quelli che dipendono dall'abilità del
giocatore (biliardo, scopone, ecc.). E in questa sua rassegna di giochi ha
forse voluto rappresentare una situazione di costume e anche di
irrazionalità dilagante e, indirettamente, una crisi di speranza, anche
perché non appare evidente se l'artista guardi a questi suoi personaggi con
pietà o rancore o ironia. Oggi la società è così competitiva
-economicamente, bellicisticamente, sportivamente - da aver ridotto a gioco
drammatico perfino la vita singola e collettiva; perfino i mercati e i
traffici del mondo divengono un grande gioco di mosse e contromosse, e
perfino le guerre rispondono a strategie contrapposte nel gioco drammatico
delle forze, delle scelte, delle sorprese. Nel suo piccolo mondo -sembra
dirci l'artista- l'uomo della strada lancia ogni giorno i suoi dadi, tenta
comunque un riscatto e azzarda un rischio, caricando i gesti di tutta la
loro carica di emozione e di attesa.
Perché il giocatore -in questo caso- presuppone l'orgasmo dell'attesa per un
evento che può o non può accadere: gettato il "dado" scatta l'attesa per un
numero, del tutto casuale in questo caso non dissimile dall'attesa del
giocatore di "bocce" che accompagna con l'occhio e il passo il percorso
della sua palla appena lasciata cadere con abilità dalla sua mano. In questo
brivido sta proprio la "malattia del gioco", quella capace di creare la
dipendenza assoluta nell'incessante ritmo degli azzardi, dei rischi, delle
sconfitte. Perché neppure la vittoria, possibile e attesa, è motivo
determinante del giocare, ma è il giocare stesso, con le sue perverse regole
accettate a priori dal giocatore con atto di sacra obbedienza, che trascina
nell'incessante susseguirsi delle giocate e delle scommesse: infatti anche
la sconfitta è - a suo modo- un incentivo a continuare, uno stimolo a
rischiare di nuovo. Nel suo lavoro ferve da anni un forte bisogno di
rivincita umana, un atteggiamento polemico verso un mondo colmo di
contraddizioni e ingiustizie che all'inizio pareva rivolto più al piccolo
intrigo della cronaca quotidiana per farsi poi sempre più rispondente ad una
sua personale filosofia del vivere. Su questa "filosofia" potremmo fare
qualche piccola riflessione: come dicevano gli antichi (Aristotele) e ha
ripetuto Baudelaire, la natura appare spesso incompleta e imperfetta, al
punto tale da spingere l'artista a dover intervenire per completarla: in tal
"natura" va posto anche l'uomo con le sue cattiverie morali, con i suoi
egoismi, col suo cinismo. La denunzia di tali comportamenti è sempre stata
per Dal Canto un'esigenza fondamentale nel suo lavoro d'artista, espressa
sempre senza volgarità e malevolenza, ma quasi con spirito di pietà e di
rassegnazione. Davanti a noi sta sempre l'uomo, potente o misero, padrone o
vittima, nell'uno e nell'altro caso meritevole sempre di un quasi
impossibile perdono.
Intorno a Dal Canto ruota una folla di inermi cittadini che vivono le più
imprevedibili situazioni, e l'artista sa cogliere un rapporto stretto tra le
situazioni e i modi più curiosi per affrontarle: nascono così sempre
"situazioni di vita" che non si concludono mai con "risposte" logiche e
compensative, ma si bloccano al punto esatto del contrasto irrisolvibile: un
uomo grida e l'altro tace, un uomo si illumina di potere e d'astuzia mentre
l'altro -il meschino- subisce! E i ruoli potrebbero -tra l'altro- invertirsi
in un attimo, in un gioco di scambi compiacenti e di apparenti e false
supremazie: ne esce una figurazione così intensa di problematiche umane da
suscitare ira e sdegno ma anche ilarità e compassione. Evidentemente
l'ironia deve nascere già prima nella fase preparatoria mentale, cioè nella
riflessione che l'artista dedica a priori alle faccende sacre del vivere
umano. L'uomo è costantemente alle prese col suo ruolo di "coesistente" e i
suoi destini si attuano in una società di uomini in genere costantemente
tesi ai propri obiettivi: obiettivi che in genere tendono ad alimentarsi di
solipsismo egoistico tipico di una società protesa al suo utopico benessere.
In genere Dal Canto coglie proprio con l'occhio critico e inquietante
dell'insoddisfatto il contrasto che si crea tra il potere e l'uomo comune,
illuminando le situazioni alla luce delle comicità e, spesso, del sarcasmo.
In ogni tempo - classico o romantico - la Critica ha voluto cogliere
l'ironia nelle rappresentazioni artistiche in cui si raffigurasse un
atteggiamento burlesco o denigratorio verso il contesto sociale dal quale
quelle rappresentazioni prendevano vita. Tutto ciò implicava un giudizio
generale -positivo o negativo- su quel contesto e anche valutazioni
particolari che potevano presentarsi nelle varie situazioni. A Dal Canto è
capitato di vivere in una delle più tipiche situazioni intricate nelle
logiche dell'egoismo e della spregiudicatezza morale e lui ne ha
approfittato largamente cogliendo la vessazione e l'imbroglio, la sottile
violenza degli astuti e la brutale violenza dei volgari. L'artista ha inciso
fogli grafi ci che sembrano voler proprio fotografare situazioni reali e
contemporaneamente paradossali al punto di consentirci di parlare del suo
lavoro artistico come di un acuto reportage di verità interna e di studiate
attitudini al malvagio.
Ovviamente non si tratta di una ironia solamente letteraria o sottointesa,
ma di satira vera e propria che penetra nelle situazioni narrate nei suoi
racconti fino a mettere in evidenza - direttamente o attraverso metafore- il
senso dello scherno, della beffa ed anche di un negativo giudizio critico
sociale ed esistenziale. Infatti l'artista gioca bonariamente con l'uomo
come con un giocattolo funzionale alle sue allusive finalità artistiche: il
Potere crea continuamente nuovi "eroi", nuovi "santi" capaci di opprimere i
sudditi in forme sempre nuove con la magia blasfema o con l'offesa
quotidiana. I piedi sembrano conoscere un modo nuovo di calpestare e i
sudditi un modo nuovo di ubbidire! Si adeguano, stanno al gioco crudele
quasi felici, sorridono, alzano le dita, volgono appena il capo al malessere
dilagante! Masse di uomini sofferenti, tutti pigiati tra loro, fino
all'inverosimile, tagliano in due i corpi dei benpensanti dalle scarpe
nuove, quasi per ricordare che loro esistono; talvolta il Potere sa offrire
personalmente al povero una cucchiaiata di minestra mentre il paesaggio si
fa ricco e grandioso per creare ambienti adatti ai nuovi predestinati, tutti
in circolo a beatificare se stessi. I volti partecipano a questo trionfo
dello sfruttamento assumendo forme animalesche e anatomicamente imperfette;
spesso ossequiosi uomini a guinzaglio ritornano quadrupedi con le code o con
i pantaloni abbassati per subire l'ultimo spregio. I significati di questa
pittura riescono a far sorridere, ma stimolerebbero anche a distinguere
errori e colpe, proprio quelle responsabilità che gli uomini evitano di
assumere. Per fortuna avverrà che un cappello alato tenterà di salvare in
cielo l'esistenza di tanta buona gente, mentre il Potere salirà in
mongolfiera verso il proprio inferno.
Ma prima dovranno accadere molte cose: il potente giungerà alla propria
scomposizione corporea dopo che tutti avranno tentato di parzialmente
impossessarsene e Dal Canto riesce saggiamente a creare piazze piene di
folla nello stesso momento in cui riesce a mostrarci una tipica
contraddizione di questo "tempo di massa", cioè la dilagante solitudine
dell'uomo contemporaneo chiuso nella propria disperazione. Nel ricordo di
Baj, anche i suoi "generali" (meno fiabeschi) si piegano sotto il peso delle
loro medaglie (quasi tutte a forma di croce!) e le candeline stanno lì a
mantenere viva la memoria di chi è caduto. Ne nasce un quadro di aspra
denuncia verso la violenza di questo nostro tempo, verso l'aggressività
organizzata e guidata da eccellenti "teste d'uovo" educate all'ordine e
all'imperio, al rumore delle bandiere e al narcisismo degli specchi che
tradiscono l'ipocrisia nascosta. La "repubblica dorme" mentre l'uomo ascolta
"sonatine" di donne fiorite o si nasconde nel quadratino del proprio egoismo
per funzioni quasi sempre "poco nobili". Il campionario di deretani fa bella
mostra di sé mentre i "telecomandati" si destreggiano tra fili e antenne
della nuova cultura, tutti presi in un nuovo "gioco dell'oca" dove alle
"poste" sono sempre chiamati a sorveglianza guardie giudici e preti. Si
inchinano soffitte, cantine e cervelli e tutti sembrano attendere fini
ingloriose, soffocati in valigie di cartone o telefonando alle banche per
tramare qualche scandalo. L'evoluzione pare arrestarsi, figure e cose
ondeggiano come giunchi al vento, quasi si partecipasse alla fine di una
civiltà.
A questo punto il discorso dovrebbe spostarsi sull'aspetto artistico, sulla
capacità eccezionale che il Dal Canto rivela di possedere nell'arte della
descrizione sia sotto l'aspetto segnico che coloristico. La descrizione
fatta rivela già la forza creativa di questo artista in quanto i contenuti
sono sempre nuovi, legati alla contemporaneità e risolti pittoricamente e
graficamente con estrema precisione e fantasia. Ogni elemento è colto nella
sua esasperata deflagrazione narrativa in modo da poter deformare quanto
basta la composizione per renderla funzionale allo spirito polemico che la
suggerisce. La composizione corrisponde a precise collocazioni spaziali e i
colori si smorzano o si accendono in rapporto alle sequenze volute.
L'atmosfera poetica scatta nel momento in cui, superato il gioco enigmatico
delle metafore, i singoli personaggi si pongono come davanti a se stessi,
carichi della loro pena o della propria protervia. L'artista si modifica
volta volta in relazione al messaggio che vuole lanciare, facendosi egli
stesso personaggio primario in funzione di un "racconto" che è reale ed
irreale insieme, ma sempre guardingo nei confronti di chi all'umanità guarda
più con cupidigia che con amore.
Le vesti a strisce bianche e rosse mirano a collocare ogni essere dentro un
suo penitenziario di delusioni e di angosce mentre l'abito dei borghesi
rimane fedele al nero funerario, quale si conviene alla loro cattiva
coscienza. Tutti si muovono in spazi urbani discutibili e rischiosi, con
case arroccate e fuori misura, fitte insieme come le coscienze dei loro
abitanti, ammucchiate e pavide. I colletti e i polsini bianchi si oppongono
ai maglioni dei diseredati e qualche angelo o farfalla intervengono non
tanto come elementi decorativi, ma come simboli di un cielo azzurro che un
giorno dovrà pur sorgere per salvare il mondo. E tutto diviene in
quell'attimo ribellione, attesa e inesorabile futura resurrezione al bene e
alla vita della libertà.
Se l'arte deve interagire col mondo e proporsi anche come provocazione di
fronte a situazioni eticamente allarmanti -dopo avere salvato la semplicità
e l'eleganza del linguaggio del nostro artista- allora si può dire che
l'elaborazione figurale delle vicende umane su cui Dal Canto insiste da
quarant'anni è tale da sollecitare riflessioni e ripensamenti. Si tratta di
un "racconto lungo" scritto con la caparbietà di uno che non vuole solo
declamare gli eventi amari di una situazione esistenziale che tocca tutti ma
che vuole parteciparvi in diretta, dando nome e cognome ai suoi vincitori e
ai suoi vinti. Scrivevo trent'anni fa che Dal Canto voleva resuscitare a
livello di memoria una stagione che toccava case strade e gente della sua
città: ora l'inquietudine dei suoi personaggi investe categorie di altri
mondi, di altre globali dimensioni, anche perché i tempi non sembrano avere
mutato in meglio le situazioni: anzi! Il suo "teatro" ha cambiato solo nome
e strade ma la poesia seguita benignamente a sfiorare con mano delicata
queste cronache reali e perverse. Se provocazione doveva essere, la
provocazione dell'artista ha raggiunto il bersaglio: si può dire che
l'artista dipinge una "crisi" in atto, il disagio dell'arroganza ad ogni
costo e l'avvento di una malinconia che non è più singola o vagamente
crepuscolare ma capace di investire e interpretare l'esistenza di tutti. Dal
Canto sa di operare in un mondo dove prevale l'ingordigia e il gioco della
rapina pubblica e privata; a questa situazione si contrappongono solo uomini
che sembrano aver perduto la speranza di poter modificare in meglio il
mondo. Ma, a ben guardare, questi uomini sono portatori di una tale angoscia
da costringere all'indignazione anche il più quieto dei benpensanti.
A questa indignazione le forme si adeguano dilatandosi in forme ironiche e
bislacche, quasi che i sentimenti seguissero strani impulsi d'ira o
contrapposte desolazioni sentimentali. Le terapie non servono a sanare
situazioni morali di questo tipo. Solo l'artista può trarre vantaggi etici
da queste soluzioni artistiche, capaci di farsi almeno liberatori per
ritrovare equilibri smarriti e far diventare l'arte anche gioia e gusto di
vivere.
L'artista Dal Canto rivela le sue possibilità interpretative tutte
legittimate dal gusto estetico, come quando ci presenta il ciclo su
"Pinocchio". Infatti l'ultimo impegno dell'artista è legato ai ventitré
dipinti inerenti all'opera collodiana: Pinocchio.
Una straziante sequenza che se venisse esaminata nei particolari
richiederebbe una incredibile mole di studio e di tempo. Alcuni elementi del
Potere controllano dall'alto e dal basso un elegante condominio (con tende,
cani, alberi, chiese in bilico) mentre il "senza potere" si va smarrendo
nell'armadio assolato, la folla (guardata a vista fra forconi o paradisi)
s'arranca a piramide come intruppata tra potere e non potere in un estremo
libertinaggio di posture, mentre le autorità religiose con i galloni d'oro
inchiavardano e uccidono il povero Cristo. Mentre i pinocchi-arlecchini
sovvertono e squilibrano la vera città altri stanno propagando i giochetti
del quartierino invano transitato dai piccoli cortei, altri preparano le
formule perché il Potere possa meglio soddisfare le indecenti formalità
della fregatura padronale. Quando giunge Pinocchio la folla tende
rapidamente a studiare la testa del burattino, a farsi spettatrice e
teatrante armata solo dai guantoni e a fuggire a difesa della propria
casetta, mentre altri difendono bene diverse e luminose dimore e il
carabiniere -il potere reale- è beffeggiato dal contropotere di Pinocchio
che vuole mancare di rispetto: purtroppo il Pinocchio di Dal Canto viene
acciuffato e ricondotto da Geppetto. Nudi e con musi lunghi sono tutti lì
col Potere che li domina.
E così quasi tutti diventano Pinocchi al momento in cui -come al solito- il
potere consente a tutti danze e dolci, addirittura lasciando la libertà
nelle spire dei gaudenti, ormai tutti conquistati dal falso Potere concesso:
i Pinocchi pescano, fanno sport, concludono affari, dirigono centrali
televisive, amano belle donne e zecchini d'oro, obbligano al silenzio,
intercettano ogni trasmissione, si trasferiscono sui video, formano le
ronde.
La rivolta di Pinocchio è la sua ribellione alla tranquilla romanticità di
un secolo onesto e patriottardo quale l'800, in cui il Potere si costituisce
quale potere che crea se stesso per dirigere il Paese e il mondo, ma che si
costruisce anche strade sempre in discesa, entra nel Duomo col "di dietro"
scoperto, nell'"Arno inquinato" il Potere inabissa chiese campanili e città;
il pifferaio seguita la magia della comunicazione controllata. Tutto vola,
tutti i poteri si intersecano mentre il "contropotere" perdente si accascia
con le sue maglie a righe, allineato in venerazione del Capo; il Potere
innalza i suoi piccoli miti (la scarpa, il pesce, i calzini), tenta di
impossessarsi della pseudo-cultura e tenta la critica ridicola sul mondo dei
"palestrati" di turno, esalta l'uomo con la bombetta per empirne ancora i
salotti della città, si insiste sui computer che dividono cittadini e
cervelli oltre a penetrare nelle fibre come simboli e miti; dividono i
portoni delle banche, si misurano le forze nella piazza della fiera con
l'albergo vecchio che lascia posto al nuovo e le donne -belle e brutte- che
portano in giro la propria carne. Tutti pensano al Potere come una madre
benigna e ciò incanta una folla sterminata, e si inaugurano monumenti. Nei
labirinti si nascondono le cose immonde, le "Tre Grazie" botticelliane
risorgono travolte da un fisico dipinto senza amore, mentre i politici
confrontano tra loro i brutti volti; nel Vaticano c'è chi sale e chi scende
anche se la cupola di San Pietro si chiude nel proprio sottile potere, ma la
miseria rimane, i colli si allungano e si tirano le cinghie. Cambia la
storia, l'euro si conclude nel gelato off erto ai poveri mentre chi non ha
potere trasporta sulle spalle l'uomo con cravatta e bombetta. Trionfa il
malcostume del calcio con la folla invasa da un tifo interessato: tutto col
Potere che travalica da ogni spazio perché a tutti il naso lungo documenta
la storia di vicende non vere, dirette da un Potere che non consente ad
alcuno di intervenire, mentre intorno si cambiano idee, volti, atteggiamenti
con trombe, antenne, maschere e infinite altre cose che, come i personaggi
di "Miracolo a Milano" volano sulle scope verso una possibile felicità,
anche se il vento seguita ad essere contrario.